Skip to main content

Un Natale che vale tutta la vita: riflessioni leggendo ‘Un canto di Natale’

Siamo ormai abituati a considerarlo un classico del Natale, lo abbiamo visto oggetto di rivisitazioni cinematografiche e teatrali, ma la domanda rimane la stessa da anni: perché proprio “Un canto di Natale” di Charles Dickens, e non altri romanzi e racconti che si sono avvicendati nel corso dei secoli? Perché dal 1843, anno della sua prima edizione, questa apparentemente leggera fiaba continua ad affascinare piccoli e grandi?

Forse la risposta sta nel non noto, nella non evidenza, nelle strutture profonde di un novel-romance, racconto di vita reale ma anche di apparizioni fantastiche, che rappresenta una prima volta per il suo autore e in genere per la moda del secolo, quella di scrivere romanzi a puntate sulle riviste e prolungare, per motivi anche commerciali, la narrazione più possibile: al contrario del grande successo a episodi del “Circolo Pickwick”, iniziato nove anni prima, stavolta “A Christmas Carol”, questo il titolo originale, è un volume, unico e agile che ha qualche cosa a che fare con i fairy tales, racconti di fate e folletti, ma anche con la ferita del lavoro minorile in fabbrica per più di dieci ore, che Charles aveva sperimentato in prima persona, a dodici anni; parla di spiriti ammonitori, si protende indietro allo Shakespeare dell’Amleto, con i fantasmi che vanno a trovare i vivi, e del Macbeth con le profezie delle tre streghe, ma anche dei poveri che venivano messi in vere e proprie prigioni, perché come lo stesso protagonista-antagonista, l’avaro Scrooge, fa notare a chi fa le collette per i miserabili, secondo il determinismo malthusiano, se uno non è capace di sfamarsi tanto vale che muoia e non sia di peso per chi si dà da fare.

Parla di anche di altre realtà come l’amore in cui non vince romanticamente -come andava di moda allora- solo chi resta fermo nella promessa, ma ci si lascia per motivi opposti, come fa l’antica fidanzata dell’avaro, che gli dice addio in quanto pensa ossessivamente ai soldi e non agli altri; e ci sono amori che rimangono intatti nonostante la miseria e la malattia, come nella famiglia di Bob, l’impiegato di Scrooge, che deve mantenere i figli, tra cui uno gravemente infermo, e che rimane unita nella cattiva come nella buona sorte.

Forse è per questo che “Un canto di Natale” rimane nel nostro immaginario anche oltre i limiti temporali dei nostri consumistici, -ma non solo, per fortuna-, omaggi alla nascita di Gesù: rappresenta un cammino di solitudine e di timori che si sono impadroniti della vita di Scrooge, un motivo di riflessione sui nostri tre “spiriti”, il passato, il presente e il futuro, e su noi stessi.

Capire dove stiamo sbagliando noi invece di attribuire la colpa agli altri è un dono che ci viene anche da questa vecchia storia, ma anche dai contatti umani, dall’uscire, dall’ascoltare, dal donare senza pretendere in cambio nulla. E soprattutto sapendo, anche grazie a Dickens, che un errore non è per sempre, e che c’è, lo diceva millenni fa l’Ecclesiaste, un tempo per la guerra, cui purtroppo stiamo assistendo in questi giorni, ma anche un tempo per la pace.

Marco Testi

Segui La Voce Misena sui canali social FacebookInstagramTwitter e Telegram, oppure scarica l’app da Google Play o da App Store.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.