Migrazioni, accoglienza, pace, welfare e partecipazione: abitare i confini, senza paura
«Sui giornali si canta vittoria per il “Patto europeo su migrazione e asilo”, ma sappiamo che c’è ancora molto da fare. Non basta pagare gli Stati per fare solidarietà. È la stessa cosa che sta facendo il governo italiano, che paga l’Albania per portare lì i migranti. Noi fin da subito abbiamo detto che non condividiamo questa scelta». Lo ha affermato don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana, nel suo intervento di chiusura al 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane che si è svolto qualche settimana fa a Grado, in provincia di Gorizia. Vi hanno preso parte 613 delegati, tra cui 138 giovani, in rappresentanza di 182 diocesi e tra queste anche Senigallia. In vista del Giubileo 2025 si è deciso di organizzare i convegni nazionali ogni due anni, alternati agli incontri a livello di delegazioni regionali, per dare spazio alle Caritas a livello locale. Il direttore di Caritas italiana ha poi annunciato una iniziativa che sarà lanciata durante il Giubileo: un progetto di microcredito sociale per persone indebitate e famiglie, in collaborazione con le Fondazioni antiusura, con una colletta nazionale che durerà tutto l’anno. Il tema di fondo approfondito e declinato durante il convegno è stato “Confini, zone di contatto e non di separazione”. Non a caso si è svolto tra Grado, Gorizia e Nova Gorica, terra di frontiera tra Italia e Slovenia.
Con quali nuove consapevolezze tornano a casa i delegati Caritas?
Torniamo a casa con diverse consapevolezze: la prima è abitare il confine come luogo di incontro e contatto e difesa dei diritti delle persone che incontriamo, per far crescere la convivialità delle differenze e i propri confini. I confini ci aiutano a ridisegnare la nostra identità e non disperdere le energie. Poi c’è il tema importante del coinvolgimento della comunità, ossia non fare da soli ma agire insieme ad altri pezzi di Chiesa. Non lasciarsi confinare a chi ci vuole bravi uomini e donne, delegando a noi i servizi. Non lasciarci confinare in un servizio che rischia anche di farci sentire strumentalizzati. Dobbiamo avere il coraggio di sconfinare. La seconda grande consapevolezza è quella di voler essere “partigiani”, nel senso di “prendere parte”, fare insieme, sporcarci un po’ più le malti con la politica: non nel senso di scegliere partiti o una ‘chiamata alle armi’ ma dare maggiore valore politico a ciò che facciamo. Il mio invito alle Caritas è “essere partigiani”, ossia fare la propria parte, conoscere il manifesto di Caritas Europa con le cinque priorità.
Quali sono oggi i vostri temi e azioni prioritarie?
Azioni fondamentali sono oggi per noi la difesa della legge 185/90 sul commercio delle armi, che rischia di essere smantellata. Siamo tra quelli che l’hanno promossa. Difenderla rilancia la nostra identità. Oggi dobbiamo fare di tutto per dire no alla produzione di armi. Dobbiamo cominciare a costruire pace in assenza di guerre e conflitti. Se si usano le armi vuol dire che qualcosa non ha funzionato prima. Nel distretto di Brescia, ad esempio, c’è una grossa produzione di armi, che crea un indotto lavorativo. Se dico no alla produzione di armi devo pensare a proporre posti di lavoro alternativi, altrimenti rischiamo di essere percepiti come sognatori che non cambiano il corso delle cose. Oggi il più grande peccato che possiamo fare è il silenzio, è tacere. Siamo poi chiamati ad accogliere chi è diverso. Quando operiamo in emergenza non siamo i salvatori del mondo ma ci mettiamo accanto alle Chiese e, nel rispetto degli altri proviamo a fare la nostra parte. È giusto accogliere, è giusto salvare in mare, ma a noi tocca anche fare cultura, animare la comunità. II nostro vero compito come Caritas in Italia, aldilà delle opere segno, è l’animazione della comunità, tornare a formare la comunità, la nostra funzione pedagogica.
In Italia la povertà aumenta e si rischia uno smantellamento del welfare. Qual è il vostro avvertimento?
Se perdiamo il sistema sanitario pubblico e il diritto alla salute ci sarà un’altra povertà, oltre alla povertà reale e a quella educati, al tema dei working poor e del precariato. Mi preoccupa anche la povertà della delega perché oggi non c’è più interesse nei confronti del bene comune, delle situazioni delle nostre città e luoghi. Il disinteresse è talmente alto che nemmeno andiamo più a votare. Vuol dire che ci stiamo rassegnando al fatto che le cose non possono cambiare. Perciò dobbiamo custodire e innovare la cultura.
La Camera dei deputati ha approvato il ddl politiche sociali e terzo settore, che semplifica procedure gravose per le realtà sociali più piccole. Che ne pensa la Caritas?
C’è soddisfazione per l’approvazione. È il riconoscimento del lavoro di mediazione del Terzo settore come soggetto credibile e competente. Questo potrà permettere di accompagnare di più i poveri nell’inclusione e per riacquistare dignità.
L’Europa ha approvato il patto sulle migrazioni e l’asilo ma Caritas Europa e Migrantes hanno espresso molte perplessità. Come guardare al fenomeno delle migrazioni?
È importante saper guardare alle migrazioni come risorsa. Ricordiamo che una delle più grandi povertà in Italia è la denatalità, per cui abbiamo bisogno di fratelli e sorelle che vengano ad abitare sul nostro territorio, sviluppando modi legali per fare arrivare le persone in sicurezza, come i corridoi umanitari. Ad esempio, sarebbe bello portare in Italia persone che già sanno parlare l’italiano, per facilitare l’integrazione. E poi ricordiamo che c’è un diritto a partire ma anche un diritto a restare, per cui è importante rilanciare la cooperazione internazionale.
Questo articolo è stato pubblicato
nel numero cartaceo di maggio
de La Voce Misena
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