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Scuola di Pace: «Inconcepibile che ancora oggi si risolvano i conflitti con le armi» – L’INTERVISTA

Scritto da Carlo Leone il . Pubblicato in , .
La manifestazione promossa dalla Scuola di Pace V.Buccelletti di Senigallia per le celebrazioni del 2 Giugno (edizione 2023)
La manifestazione promossa dalla Scuola di Pace V.Buccelletti di Senigallia per le celebrazioni del 2 Giugno (edizione 2023)

Da anni esiste a Senigallia una realtà di persone e associazioni che si impegna per la pace, perché si possa affermare la strategia della non violenza come metodo risolutivo di conflitti e controversie. E’ la Scuola di Pace “Vincenzo Buccelletti”, e noi abbiamo ovviamente intervistato il presidente Daniele Marzi – anzi uno dei due, perché è copresidente insieme a Emanuela Sbriscia Fioretti – per capire quanta strada è stata fatta dagli anni ‘80 a oggi, se e come è cambiata la sensibilità delle persone verso la guerra e i conflitti in generale. L’intervista è in onda oggi, lunedì 24 giugno, alle ore 13:10 e alle ore 20; domani, martedì 25, agli stessi orari e domenica 30 giugno, alle 16:50, sempre su Radio Duomo Senigallia-In Blu (95.2 FM). Ma sarà possibile ascoltarla anche qui su La Voce Misena, cliccando il tasto play del lettore multimediale, o leggerla proseguendo con il testo dell’articolo.

Chi è Daniele Marzi?
Un pacifista, non violento, obiettore di coscienza, mi sono avvicinato alla Scuola di Pace perché tramite la Caritas sono venuto in contatto con tutto un movimento di pacifisti: allora c’era sensibilità, c’erano le antenne dritte su questi temi, con don Tonino Bello e altri che parlavano di questo bene che è anche in Costituzione: l’Italia ripudia la guerra, non è un semplice rifiuto ma molti fanno finta di non ricordarsene.

Cos’è la scuola di pace?
Nasce oltre trent’anni fa tramite il reimpiego dei beni confiscati a una serie di obiettori fiscali anche a Senigallia. La scuola perché bisogna educare alla pace alla non violenza: all’inizio era proprio una scuola con formazione e presenze, soprattutto degli insegnanti che poi avrebbe potuto riversare nelle scuole le conoscenze acquisite.

E oggi?
I tempi sono cambiati, facciamo più sensibilizzazione sulle esperienze e sulle iniziative che abbiamo intorno a noi. Organizziamo la festa della Repubblica = festa della pace per il 2 giugno, per contrastare quell’associazione della celebrazione della Repubblica che ripudia la guerra con le parate militari. Qui abbiamo voluto dare un piccolo segnale, le armi non devono avere a che fare con la festa della Repubblica. Poi cerchiamo di educare in tutti i modi e mettere in rete le varie associazioni e le persone, poi abbiamo in mente di tornare nelle scuole per parlare ai ragazzi e ai giovani di temi di attualità.

A Senigallia che aria tira? C’è sensibilità?
Sì c’è perché in 30 anni il movimento pacifista senigalliese ha comunque seminato ma rischiamo di rimanere sempre i soliti. Le nuove generazioni, ma non solo loro, sembrano poco interessate, pensano che l’unica opzione sia quella di opporsi sempre con le armi. E far morire le persone. 

Frutto della narrazione dei mass media e dei social?
Assolutamente sì, purtroppo è stato uno dei principali elementi. A servizio di questa recrudescenza militarista c’è stata una stampa molto schierata e quasi unilaterale nel difendere questa posizione interventista dove la guerra era l’unica opzione. Ogni pacifista veniva tacciato, nel caso del conflitto Russia-Ucraina, di essere un filo putiniano. Ma noi lo condannavamo già all’epoca della Cecenia. E allora i paladini anti Putin di oggi non si vedevano.

Ma ci sono alternative all’intervento militare?
Sì, abbiamo organizzato un incontro su un libro di una ricercatrice americana che ha reso pubblici studi scientifici su come sono stati risolti i conflitti degli ultimi cento anni. Dove si è usata la nonviolenza, i risultati sono stati migliori di quando si sono usate le armi. Sono dati statistici, ma nella testa delle persone rimane come unica opzione l’utilizzo delle armi, nonostante le evidenze dicano che non serve.

Quanti i conflitti mondiali che seguite?
Uno degli obiettivi della scuola di pace è quello di tenere accesi i riflettori su quella che papa Francesco ha chiamato la terza guerra mondiale a pezzi. Non ci dobbiamo dimenticare che ce ne sono tantissimi. Almeno 30 sono le guerre ufficiali, poi altri 20 sono conflitti civili o situazioni di violenza, più 12 o 13 missioni Onu. Il mondo è in conflitto.

Da dove nascono queste guerre?
Spesso non sono frutto di divergenze e controversie, ma la conseguenza del fatto che si producano armi. Non è che si producono armi perché c’è il conflitto, ma ci si riarma perché la guerra è un grosso business. Smuove 2.244 miliardi di dollari, mentre la Fao ci dice che con soli 31 miliardi si può debellare la malnutrizione nel mondo. Quindi è qualcosa che fa comodo ai produttori di armi.

E noi cosa possiamo fare oltre a informarci?
Manifestare in piazza è il primo passo per dire che “io non ci sto”. Abbiamo il dovere di non collaborare col male, quindi cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica. E poi cercare azioni concrete: si sta pensando di riproporre l’obiezione fiscale, di certo serve una rinnovata concretezza, ma serve anche un’opinione pubblica forte e convinta. Sappiamo che è difficile, non viviamo su Marte.

Com’è cambiata la percezione della guerra?
C’è un’assuefazione, ci si convive. L’unico modo è secondo me mostrare la verità sull’orrore della guerra, è il modo più efficace per capire che è il modo sbagliato di risolvere i conflitti. Anche perché se c’è un torto e una ragione, poi alla fine nessuno ha più ragione perché anche l’iniziale vittima si macchierà di crudeltà. La violenza è disumanizzante. E’ quindi inconcepibile che sia ancora oggi legittimata come strumento lecito e unico per risolvere le controversie.

Quale strada allora?
Finché ci saranno le armi, ci saranno le guerre. Serve una transizione, chiaro che non puoi di punto in bianco dismettere gli eserciti, ma almeno intraprendere quella strada. Poi si deve ricordare che niente viene dal nulla: in Ucraina, per esempio, si combatteva già dal 2014, quando nel Donbass le principali vittime erano le minoranze russe di cui nessuno parlava o quasi. E poi serve consapevolezza, sapendo che la risposta non violenta produce più risultati, è più efficace e si producono meno vittime.

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