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Il cinema sa parlare all’anima

Intervista al vescovo di Senigallia, Franco Manenti, su cosa possono rappresentare le sale della comunità

Cosa significa poter disporre di sale della comunità nella propria diocesi?

Significa una risorsa e un’opportunità, strettamente collegate: la sala è un luogo di incontro tra persone e opportunità di comunicare con quanti le frequentano, non necessariamente per le ragioni della propria fede; è un’opportunità di tipo sociale, culturale e legate alle manifestazioni della creatività umana, uno stimolo continuo a confrontarsi con sensibilità altre, non opposte, ma legate alle manifestazioni della creatività umana che tutti ci affascina.

Come vive oggi la Chiesa la sfida culturale, come è cambiata nel tempo?

Mi piace pensare alla cultura con un’accezione ampia: la penso sostanzialmente come il modo in cui la gente vive la propria vita, l’esercizio del pensiero che elabora una riflessione rigorosa volta a capire quanto succede nel mondo e nell’animo delle persone. La Chiesa ha sempre prestato ascolto alla cultura, da subito ha cercato di parlare alle persone non prescindendo da quanto queste stavano vivendo e pensavano. Basti pensare alla predicazione di San Paolo ad Atene, in un tentativo riuscito a metà, proprio per la fatica dell’incontro tra la fede e la cultura greca e romana. C’era da considerare, in questa incomunicabilità, lo scandalo di un Salvatore che si presentava così dimesso, umile, all’apparenza sconfitto. Paradigmi diversi che faticavano a capirsi e questo è accaduto più volte nella storia umana.
Oggi la Chiesa desidera e cerca di trovare forme di comunicazione più adatte alla cultura di oggi, dove adatte non vuol dire ‘adattabili’, quasi fossimo coinvolti in una indagine di marketing alla ricerca dello slogan che funziona meglio. Adatto vuol dire chiedersi come il vangelo parla alla gente e sia parola comprensibile. Il vangelo è sempre quello, ma gli uditori no. Papa Francesco, non a caso, parla di un cambiamento d’epoca, radicale, che notiamo nel modo di concepire la vita, di ripensare i fondamentali dell’esistenza (relazioni, genitorialità, malattia, morte…), nel modo di costruire gli ambienti. Oggi non c’è più un’interpretazione univoca. Ecco perché è più che mai necessario il confronto con il pensiero altro: non è tempo perso quello dedicato al vissuto e alla riflessione, ma registra delle difficoltà, per tanti motivi. Un tempo era un confronto non problematico; oggi convergenze e sinergie sono venute meno, siamo in un mondo che dichiara una forte marginalità della fede e quindi della Chiesa. I papi conciliari hanno sollecitato a stare in questo mondo senza sentirsi sconfitti, senza vittimismi ma con l’amore di cui Cristo sta di fronte al mondo, che è e rimane il destinatario del vangelo. La fatica di interloquire è evidente ed in questo mi incoraggia pensare, ad esempio, allo stile e alla passione di un Benedetto XVI che chiede pazienza e rigore, che aiuta questa cultura a recuperare dignità e la capacità della ragione ad accedere alla Verità. Sfida, non battaglia, che indica una possibilità tutta da cogliere.

Cosa insegna questo tempo incerto alla Chiesa nel rapportarsi anche culturalmente al mondo?

Anzitutto siamo sollecitati ancora una volta a superare il pregiudizio per il quale spiritualità significa altro rispetto alla vita: la vita spirituale è vita concreta, vissuta nell’accoglienza dello Spirito Santo, un’esistenza che assume lo stile di Gesù Cristo. La concretezza è l’interlocutrice e destinataria della spiritualità e si tratta di dimostrare come la Buona notizia (che è Gesù stesso) è in grado di parlare non come realtà estranea, ma come ingresso che apre alla realtà. È Parola che ti consente di cogliere il senso originario della tua vita e di raggiungerne il compimento. La Genesi, quando parla della creazione dell’uomo e della donna, accentua la bontà di questa creazione. Gesù restituisce alla vita umana la sua bontà originaria e ne indica il compimento. E ciò – splendidamente raccontano al n. 10 dell’enciclica Redemptor hominis di San Giovanni Paolo II – chiede di spalancare le porte a Cristo. Un annuncio che ha bisogno di essere mostrato nelle pieghe della vita tutta intera, in quello che mi piace definire servizio di bonifica antropologica.

Il cinema parla ancora tanto: quali le potenzialità più belle, quali invece i ‘pericoli’?

Il cinema, dico quello che suscita in me, raccoglie diverse forme di comunicazione in se (immagini, musica, parola detta, mimica…) e questo linguaggio è persuasivo, suadente. Immagini belle, azioni incalzanti, parole di senso: tutto tanto seduttivo, quando naturalmente contiene qualità. È un linguaggio che è continua sollecitazione molto interessante, un film può far pensare oppure può far spegnere il pensiero. Puoi consumarlo nell’immediatezza, oppure andare in profondità, farlo digerire col tempo, nelle situazioni esistenziali più diverse. Io prediligo questo secondo approccio e mi metto nella riflessione del card. Martini, il quale diceva che la linea che marca la distinzione tra le persone è il pensiero: c’è chi mette in moto l’intelligenza, c’è chi invece non la esercita, per tanti motivi. Il cinema, quando è buon cinema, è un prezioso alleato del pensiero.

Quali scelte pastorali urgono?

Pastoralmente dobbiamo abitare questa arte: se ci sono persone che si dedicano a questo linguaggio e alla sala, significa che possiamo scommettere su una preziosa risorsa e opportunità per far pensare la gente, sulle domande da porsi e anche sulle possibili risposte. Una chiesa diocesana che ha anche questo servizio pastorale è tanto più ricca, perché può godere di un linguaggio, non semplice, ma tanto incisivo, che suggerisce prospettive. Mi piace anche la dimensione di leggerezza che il cinema sa offrire, ci vuole anche quella!

Nella sua filmografia, cosa trova particolare ospitalità?

Sono affascinato dai film di Bergman, l’intera sua filmografia è nei miei scaffali. Non è un cineasta di evasione, mi rendo conto, ma in lui trovano eco tante domande fondamentali; poi amo “La leggenda del santo bevitore”, i film di Ermanno Olmi, anche per la vicinanza geografica delle ambientazioni al mio paese natale, mi piacciono i western di Sergio Leone. E ho apprezzato tantissimo l’ultimo film di Terrence Malick, ‘La vita nascosta’. Ripeto, il cinema mi strega per i tanti linguaggi diversi racchiusi in un’emulsione mirabile. È davvero una risorsa grande, anche nell’alimentare i sogni. Non sogni che rimangono tali, piuttosto attivatori del desiderio. E da questo possono nascere dinamiche che aprono percorsi tanto belli e utili alla nostra umanità.

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