Giorno del Ricordo: la tragedia delle foibe, una breve ricostruzione storica
Il Parlamento italiano, con apposita legge del 2004, ha scelto il 10 febbraio (a 57 anni dal Trattato di Parigi) come “giorno del ricordo” per commemorare le vittime della tragica vicenda, degli “infoibamenti”, che coinvolsero nel passaggio tra guerra e dopoguerra le terre giuliane e istriane (1943-1945) e i successivi esodi di intere comunità italiane dalle regioni slave (Fiume, Pola, Dalmazia, Capodistria etc.). Le foibe sono cavità carsiche, a forma di imbuto, scavate dal corso dei fiumi, profonde fino a circa 200 metri. In esse a partire dall’8 settembre 1943 fino al 1946 furono gettati, legati l’uno all’altro, migliaia di militari e civili italiani, uomini, e donne, prima torturati, spesso ancora vivi, ad opera delle truppe di Tito con la connivenza di partigiani italiani. L’eliminazione fisica toccò il suo culmine nel 1945: dapprima coinvolse l’Istria e poi Trieste (occupazione titina tra maggio/giugno 1945) e la Venezia Giulia: sono stati calcolati all’incirca 10.000 morti. Fu non solo lotta contro i fascisti, nazifascisti o collaborazionisti: fu anche “pulizia etnica”. Al dramma delle foibe si accompagnò e seguì il fenomeno dell’esodo dalle regioni friulane e dalmate: complessivamente 300.000 – 350.000 persone lasciarono le loro terre a causa di persecuzioni, spoliazioni di beni, intimidazioni compresa la cancellazione della propria identità nazionale e culturale. L’ultimo esodo di circa 50.000 persone si verificò nel 1954 a Capodistria dopo il passaggio della stessa area (zona B) alla Jugoslavia (mentre Trieste – zona A – tornerà italiana).
Ci si è interrogati sui motivi che hanno condotto a tanta violenza e a tanta efferatezza. Il fenomeno va inquadrato nel vuoto di potere lasciato dal crollo del regime nazifascista e dall’inserimento del progetto del movimento di liberazione jugoslavo teso a realizzare un nuovo ordine alternativo, nel quale confluivano le due componenti nazionale e ideologica (comunismo). Ad esse però occorre aggiungere il ricordo doloroso delle violenze che il regime fascista aveva lasciato nelle popolazioni slovena e croata in territorio italiano e quella nazifascista con l’occupazione della stessa Jugoslavia. Quindi intolleranza politica e spirito nazionalistico si unirono a vicende “personali”, delazioni, rese dei conti, motivi sociali e non, ultimi atti criminali in quanto tali. Solo l’intreccio di questi fattori può spiegare comportamenti altrimenti inspiegabili, oltre al fatto stesso della guerra e l’assuefazione alla violenza di per sé.
Un’altra questione va affrontata: il perché del duraturo oblio che ha coperto il dramma delle foibe. Anche in questo caso si intrecciano motivi interni all’Italia e ai suoi partiti, in particolare DC e PCI, e motivi internazionali. Per il governo italiano e De Gasperi si trattava di concludere rapidamente il trattato di pace del 10-2-1947 a Parigi, dove, nonostante fosse stata definita “cobelligerante” a fianco degli alleati, al momento della trattativa, l’Italia è di fatto considerata nazione sconfitta: oltre alle riparazioni, alla perdita delle colonie (Libia, Etiopia, etc.), di piccoli territori a favore della Francia (Briga, Tenda, Moncenisio), è costretta a cedere con grande dolore alla Jugoslavia di Tito terre italianissime come Zara, l’Istria, Venezia Giulia, già da secoli appartenenti alla Repubblica di Venezia e conquistate nel 1918 a completamento del Risorgimento. Per De Gasperi si tratta anche di accettare la situazione di fatto ridimensionando quindi la questione dei profughi friulani, per procedere sulla via del moderatismo alla ricostruzione del Paese anche grazie agli aiuti americani (piano Marshall). I partiti di sinistra, specie il PCI, erano scossi da un grande dibattito che portò a lacerazioni interne o a scissioni (Saragat e il PSDI) sulla priorità della fedeltà a Mosca (Togliatti) per cui si dovevano giustificare anche gli eccidi, o la via nazionale al comunismo, tesi che nel 1948 verrà fatta propria da Tito con la conseguente espulsione dal sistema comunistico internazionale. Più tardi anche Togliatti aderirà a tal teoria. Infine a livello internazionale con l’inizio della guerra fredda e la divisione del mondo in due blocchi Est – Ovest gli stessi USA ebbero interesse a minimizzare l’operato di Tito nell’Italia nord orientale quale baluardo contro l’espansione del comunismo sovietico anche in paesi come Italia e Austria, dopo la sua affermazione nell’Est europeo.
Trieste, territorio libero sotto gli alleati (zona A), tornerà “italiana” solo nel 1954. Ma è con il trattato di Osimo del 1975 che si chiude definitivamente ogni controversia di frontiera tra Italia e Jugoslavia. Per capire il senso del trattato con il quale il Paese rinunciava agli ultimi interessi territoriali (Zona B, il resto della penisola istriana) lasciati in sospeso precedentemente, occorre ricordare che esso venne stipulato durante una stasi della guerra fredda, quando cioè i due blocchi Est-Ovest cercarono, con gli accordi Helsinki, di fissare nuove regole per una convivenza meno ostile.
Ora poiché da qualche tempo si parla di “storia condivisa” su eventi più o meno lontani compresa la stessa questione dell’unità d’Italia e relative celebrazioni, il ricordo, la memoria sono via via sempre più necessarie per la comprensione dei fatti e per la crescita politica, culturale, morale, in una parola nazionale del Paese. Si tratta, cioè, come ha affermato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un discorso del 2008, di far prevalere il “dialogo sul pregiudizio“, “le ragioni dell’unità su quelle della discordia” e di riappacificare le due sponde dell’Adriatico dopo “aver appreso insieme la lezione della storia“.
Laura Pierini