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Violenza sulle donne, Cardinaletti: «Non la sconfiggeremo mai se non capiamo che riguarda tutti e tutte» – L’intervista

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Si celebra il 25 novembre la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, un fenomeno di strettissima attualità che riguarda tutti i paesi ma che vede in italia numeri, seppur in calo, ancora molto elevati. Sono infatti oltre 100 le donne vittime di femminicidi dal solo inizio del 2024, dati dell’osservatorio nazionale in Italia “Non una di meno”. Praticamente una donna ogni tre giorni muore per mano sempre più spesso del partner o dell’ex. In nove casi su dieci la violenza è perpetrata in ambito domestico. Sul tema abbiamo intervistato Simona Cardinaletti, psicoterapeuta di Chiaravalle che da anni si occupa di case rifugio e consulenza a varie associazioni per la tutela delle donne in molte parti d’Italia tra cui Marche ovviamente, Abruzzo e Puglia. L’intervista sarà in onda lunedì 25 e martedì 26 novembre alle ore 13:10 e alle ore 20 e domenica 1° dicembre alle 16:50 sempre su Radio Duomo Senigallia (95.2 FM) ma sarà disponibile integralmente anche in questo articolo assieme a un breve testo.

Possiamo fare una panoramica della violenza di genere?
Credo che sia un fenomeno trasversale a livello internazionale, non esiste luogo al mondo in cui questo fenomeno non ci sia; la discriminazione delle donne è l’elemento che unisce tutte le culture indistintamente.

Come si come si sviluppa? Quali sono i suoi segnali che potrebbero anche aiutare a prevenire alcuni dei fenomeni più violenti?
I segnali sono difficili da cogliere per tutti, sia per le vittime, che per gli autori di violenza, che per le persone intorno proprio per il fatto che è un fenomeno che si confonde molto facilmente con quello che noi vediamo tutti i giorni. E’ questo il principio culturale della violenza sulle donne: il fatto che per esempio che una donna abbia delle limitazioni da un punto di vista sia delle relazioni affettive, un controllo su dove va, con chi esce, come si veste, oppure il fatto che una donna debba sacrificare il suo lavoro, la sua carriera in nome della famiglia e quindi in questo modo essere più dipendente da un punto di vista economico. Chiaramente non tutti gli uomini sono violenti, ma tutte le donne sono vittime di una discriminazione di cui non sono consapevoli.

Quali sono questi appunto segnali che possono indicare un certo percorso nello sviluppo di una relazione malsana?
Ho cominciato nel 2000 con una casa rifugio perché poi il centro antiviolenza già esisteva sul territorio di Ancona e continua ad esistere che è “Donne e giustizia”. Quando arriviamo noi è troppo tardi nel senso che il fenomeno è arrivato al suo apice, quindi quello che noi facciamo con le donne è quello di renderle consapevoli del fatto di essere vittime dell’uomo, chiaramente in primo luogo, ma anche vittime di un’immagine di sé che le ha sempre legate in un luogo di dipendenza economica, dipendenza affettiva, le donne sono quelle che devono curare le relazioni, sono quelle che si devono occupare di tutti, di figli, di compagni. Tutto viene completato con un lavoro sul territorio, con la creazione delle reti, cioè lavorare con la società, chiamiamola civile, con enti, istituzioni, terzo settore per portare una visione unitaria, la stessa lettura del fenomeno. 

Stessa lettura poi si traduce in un protocollo operativo comune?
Da una parte abbiamo chiaramente la definizione di prassi, quindi che cosa fa ognuno dei componenti di questa rete nel momento in cui riceve una richiesta d’aiuto, che cosa si deve attivare evitando che la donna faccia mille richieste d’aiuto; dall’altra parte proprio lavorare sul fatto che la violenza è insita nel sistema culturale ed economico e questo è un meccanismo che ci riguarda tutti. Sono convinta che noi non sconfiggeremo mai la violenza alle donne se non cominciamo a pensare che è un problema che ci riguarda tutti e tutte perché insito nel nostro modo di vivere le relazioni di genere, nel sistema economico e politico.

Come possiamo uscire da questa visione e quante persone avete accolto nella casa rifugio Zefiro di cui è responsabile?
Abbiamo ospitato circa 150 donne e circa 200 bambini. La strategia che noi adottiamo e che mi chiedono di fare è di parlare di questo fenomeno proprio ai non addetti ai lavori perché le persone si rendano conto che il problema dell’aderenza non riguarda solo quella vittima o quel carnefice ma che ci riguarda tutti. 

Come ne parlano i media? 
Chiaramente i media hanno una grandissima responsabilità rispetto a questa cosa. Ancora sentiamo parlare di “uccide per amore”, “uccide per gelosia”, alimentando la confusione perché l’amore e la violenza non hanno niente a che vedere eppure si confondono molto facilmente. Credo che gli organi di stampa, insomma, la comunicazione di massa dovrebbe fare questa netta distinzione: quando si uccide una donna si uccide per violenza, non c’è nessun altro motivo. Non solo in qualche modo si trova una parziale giustificazione all’operato di chi ha agito con violenza ma si continua a perpetuare questa confusione nella testa di tutti fino a pensare che anche la vittima abbia la sua responsabilità. E questa cosa non esiste per nessun altro reato.

Lei ha fatto attività di supervisione per diverse realtà in Italia: che quadro emerge c’è una certa uniformità oppure ci sono distinzioni come dire territoriali, culturali?
Se devo vedere una differenza non è tanto rispetto nord-sud-centro, quanto rispetto alle peculiarità territoriali, nel senso che territori che sono caratterizzati da isolamento perché territorialmente sono collocati in zone con poca comunicazione, abbastanza isolati, ecco lì il fenomeno della violenza è molto forte ed è molto nascosto dalle comunità. Lo possiamo trovare un po’ trasversalmente in tutta Italia, c’è differenza in un luogo in cui ci sono più comunicazioni e le donne si possono muovere più liberamente. Un’altra differenza è nelle vittime: si denuncia più dove ci sono i servizi ecco al sud ci sono meno servizi e questo è un altro grande problema.

Dai dati che sono stati diffusi recentemente, ad esempio dall’osservatorio nazionale di “Non una di meno”, sono oltre 100 le donne vittime di violenza, di femminicidi nel 2024 ma erano 179 nel 2013 secondo i dati del ministero della giustizia: c’è un calo?
No, credo che ci sia un aumento della consapevolezza da parte soprattutto delle vittime le quali, probabilmente visto che se ne parla, e se ne parla tanto, riescano a cogliere prima determinati segnali. Ancora dobbiamo fare tanta strada però.

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