«Il carcere non funziona, 7 su 10 sono recidivi». L’allarme di Antigone per il sovraffollamento anche nelle Marche – L’INTERVISTA
Parliamo di carceri e di un’associazione che si occupa di monitorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi lavora all’interno delle prigioni italiane, tra sovraffollamento cronico e difficoltà di accesso alle misure alternative così come alle cure adeguate per le problematiche psichiatriche o le dipendenze patologiche. L’ospite di oggi è Giulia Torbidoni, giornalista originaria di Senigallia ma che lavora a Bruxelles e volontaria di Antigone Marche. L’intervista è in onda mercoledì 26 giugno alle ore 20; giovedì 27, alle ore 13:10 e alle ore 20, e infine domenica 30 a partire dalle 17. Sempre su Radio Duomo Senigallia-InBlu, ovviamente, alla frequenza 95.2 FM. Chi vuole potrà ascoltarla anche cliccando sul tasto play del lettore multimediale oppure proseguire con la lettura.
Chi è Giulia Torbidoni e perché si è occupata di carceri
Nel 2006 ho seguito un progetto in Brasile dove le suore si occupavano di misure antitortura in carcere; poi nel 2010, con la scuola di giornalismo di Urbino, ho realizzato una tesi sulle carceri marchigiane. Da lì è iniziata poi una storia di volontariato che dura tuttora con Antigone. Credo che il carcere sia un concentrato della società: quello che c’è lì dentro c’è anche fuori inmaniera più diluita, e oltre alle persone, ci finiscono anche soldi pubblici. La prima prevenzione sono i servizi sul territorio, la politica, la sanità, l’istruzione.
Perché interessa poche persone?
Uno pensa al carcere come un luogo chiuso, e se si buttano via le chiavi è ancora meglio. Ma è una parte della società, come la scuola o gli ospedali. Antigone nasce nel 1991 per conoscere con i numeri la situazione delle carceri italiane, confrontarsi con le persone, e poi cambiare la logica emergenziale che coinvolge ogni settore del nostro paese.
Che fotografia avete scattato con il vostro osservatorio?
Quando si parla di carceri si parla di sovraffollamento, che in realtà non se n’è mai andato, e per cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato l’Italia. A fronte di una capienza di 51 mila posti, ci sono più di 61mila detenuti. Condizioni di vita più dure, quindi, anche negli istituti minorili. C’è una difficoltà ad accedere alle misure alternative e sono carenti le attività, come il supporto psichiatrico, i corsi professionalizzanti e le altre strade per offrire gli strumenti per cambiare la propria vita. A ciò si aggiunge una carenza a livello sanitario per cui alcune problematiche non vengono rilevate prima ma scoppiano in carcere, così come l’accesso alle cure, un po’ come avviene per noi popolazione libera. Nelle carceri marchigiane c’è almeno un 30% di tossicodipendenti, in Italia si sale al 40%.
Quali soluzioni contro il sovraffollamento?
Per alleviare il numero delle presenze si potrebbero sfruttare le attività lavorative svolte all’esterno, ma bisogna poter frequentare corsi professionalizzanti o simili per poter avere una qualifica da spendere poi una volta all’esterno dell’istituto penitenziario. Poi ci sono le misure alternative al carcere.
Quali sono?
Ci sono gli arresti domiciliari, le detenzioni in regime di semilibertà che sono appena 1300 casi su 61mila detenuti, l’affidamento in prova ai servizi sociali o al datore di lavoro. Sono misure più economiche e più efficaci come conferma il ministero di grazia e giustizia. Sette persone su dieci tra la popolazione carceraria tornerà a delinquere molto probabilmente perché la recidiva è molto alta, al 70%, ma scende sotto al 20% in presenza di misure alternative o addirittura al 2% se c’è una condizione lavorativa. Se alle persone viene data una possibilità di apprendere un lavoro e rimettersi in cammino su un percorso di legalità, non ricommetterà reati.
Ma il carcere non è dunque la soluzione adeguata?
Per i tossicodipendenti per esempio non lo è, ma servono le comunità. Per gli immigrati la misura cautelare in carcere scatta in automatico perché non hanno un domicilio, ma dovremmo pensare a soluzioni diverse dove possano essere attenzionati senza subire il trauma del carcere. E poi ci sono 9mila persone in attesa del primo grado di giudizio, per cui sono ancora innocenti per la legge. Infine per coloro che hanno una pena residua inferiore ai tre anni, si potrebbe pensare a misure alternative con una reintroduzione graduale in società.
Perché è così importante secondo voi procedere per queste strade alternative?
Il sistema carcerario non funziona in questo momento perché crea il 70% di recidiva. E’ come se il 70% dei pazienti ospedalieri uscisse ancora malato o peggio, come se il 70% degli studenti venisse bocciato. Lì ci porremmo qualche domanda, mentre la popolazione carceraria evidentemente non ha una legittimazione sociale. Eppure il carcere fa parte delle possibilità umane perché cadere o commettere errori è molto più facile di quanto crediamo.
Ma allora, se sono misure più economiche ed efficaci, perché non adottarle?
Come associazione crediamo che una certa politica e una certa retorica voglia le carceri stracolme, fatiscenti, senza soldi per le attività educative e professionalizzanti. Però tutto questo porta a un’esplosione del sistema.
A livello regionale la situazione è la stessa?
Sì, dai dati ministeriali si registra un aumento delle presenze, 932, a fronte di 837 posti. Le situazioni più gravi sono a Montacuto e Pesaro, dove ci sono in entrambi quasi un centinaio di detenuti in più. Ma anche Ascoli e Fermo sono in sovraffollamento. C’è stato purtroppo il primo suicidio, a Montacuto, un giovane 23enne, ma è in realtà il numero 1700 da primi anni ‘90 a oggi.
Anche questo è in aumento?
Sì, nel 2023 in tutta Italia ci sono stati 69 suicidi, quest’anno siamo già a 45. Se lo rapportiamo alla popolazione italiana che è di 60 milioni, quel numero 69 significa circa 60 mila suicidi. Come se tutta la città di Fano non ci fosse più.
Per chi volesse approfondire: ecco il report di Antigone Marche
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